Colture e paesaggi agrari della piana pinerolese nei secoli

di Valter Careglio

Il paesaggio come risorsa

            Da alcuni anni la Provincia di Torino, attraverso l’assessorato alle risorse naturali e culturali, ha avviato il “Progetto di Cultura Materiale”, che intende valorizzare la storia del paesaggio agrario fino a farlo diventare un vero e proprio “ecomuseo” che, attraverso itinerari a soggetto, come le piste ciclabili, aiutino il visitatore a riscoprire la cultura contadina e a fruire del paesaggio non solo come una bellezza da gustare, ma anche come il risultato di un processo storico, frutto di un intenso lavoro di intere generazioni che lo hanno modellato in relazione a specifici bisogni e alle sfide che l’ambiente naturale poneva loro.

            Se per le valli, anche per il visitatore più distratto, è ancora possibile cogliere i segni delle epoche passate, molto più difficile risulta immaginare quale sia stato nei secoli l’aspetto del paesaggio agrario della piana pinerolese, ove preziosi "indicatori", come vecchi caseggiati in pietrame e mattoni crudi, filari di alberi, fossi a cielo aperto per lo scolo delle acque, siepi o cespugli di acacie ai bordi dei campi meno fertili, stanno lentamente scomparendo. Gli studiosi devono oggi fare ricorso sempre più agli archivi storici (consegne, catasti, mappe, registri notarili, bandi campestri), alle testimonianze orali, all’archeologia e alla fotografia aerea, per individuare i segni di un paesaggio agrario altrimenti indecifrabile. Nonostante queste difficoltà, relativamente al nostro territorio, sono apparse interessanti ricostruzioni che, seppur non in modo esaustivo, ci aiutano a tracciare una prima mappa di quale sia stata la sua evoluzione attraverso i secoli.

 

Alle origini del paesaggio agrario

            

Un interessante studio condotto da Grado Merlo su un inventario dei beni dell’abbazia di S.Maria di Pinerolo (1328), sui Conti della Castellania e sugli Statuti, relativamente ad uno dei più antichi complessi fondiari del pinerolese, quello del Musinasco (Villafranca) ha permesso all’autore di delineare il paesaggio agrario di Villafranca all’inizio del XIV secolo. Sorta in riva al Po nel corso del XII secolo, Villafranca si sviluppa grazie alle opere di dissodamento messe in atto dai monaci o da qualche signore del luogo ed alla sua posizione, che ne fa un’area di produzione e di scambio. “Ci troviamo di fronte ad un paesaggio - spiega l’autore - lineare: un’ampia zona pianeggiante con lievi ondulazioni (“podia”) e depressioni (“bassia”) del terreno. Ad interrompere tale uniformità sono i corsi d’acqua. [...] L’azione del Po e del Pellice, unita al fatto che nella zona di Villafranca riaffiora la linea delle risorgive e tutto il territorio è assai ricco di acque, determinava il formarsi di vari “lacus” [...] piccoli bacini paludosi”. [...] L’abbondanza di acque doveva aver reso il territorio di Musinasco prevalentemente acquitrinoso, regno delle erbe palustri e della vegetazione arbustiva. [...] Per la messa a coltura dei terreni dovette perciò svolgersi un’ampia attività di bonifica e di dissodamento.” I dati relativi al documento del 1328 riguardano la distribuzione agraria di 1596 giornate di terreno: per il 69,5% sono di arativo nudo, al quale vanno aggiunti gli appezzamenti di arativo misti ad altre colture, in prevalenza piantato (7%) e prato (10%); infine il bosco (1,3%) e l’incolto produttivo (1,2%). I cereali più largamente coltivati erano l’avena, la segale, la meliga o saggina, il miglio e il panico. Ad essi si affiancavano i legumi (fave, fagioli, ceci, cicerchie) e la canapa. Tra le colture arboree: alberi da frutta (meli, peri, noci, noccioli e ciliegi), e olmi, pioppi e querce. Ampiamente attestata anche se la presenza della vite anche se, data l’umidità del luogo, non doveva essere troppo diffusa. Conclude dunque lo storico affermando che si tratta di “un paesaggio di pianura caratterizzato da campi appena delimitati da viottole, da una via vicinale o da una più importante strada di comunicazione. Si tratta probabilmente di campi aperti, che contrastavano con le “clausurae”, con gli appezzamenti chiusi a coltura specializzata, posti nelle immediate vicinanze di Villafranca. (Foto: Palzzotto adiacente alla Cascina del Musinasco)

 

Prati, boschi, canapa e alteni

            Un articolo di Giancarla Bertero su due catasti del XV secolo sposta invece la nostra attenzione sul territorio di Buriasco, diviso all’epoca in Buriasco Superiore (Frossasco, Roletto, Piscina) ed Inferiore: una ripartizione che non è solo amministrativa ma mostra come il paesaggio agrario tenda a mutare man mano che ci si avvicina all'area collinare pedemotana. Nelle terre di Buriasco inferiore la quota più consistente di coltivazione è infatti ancora rappresentata dal prato localizzato un po’ ovunque sul territorio buriaschese, associato talvolta all’arativo e all’alteno. Secondo la studiosa “La diffusione del prato, più massiccia che nel territorio pinerolese, dove interessava il 15,16% della superficie agraria, e il censimento di un certo numero di airali sono indizi di un’attività di allevamento del bestiame che il catasto non consente di quantificare perché [...] non riporta il numero dei bovini e degli ovini posseduti”. Noi ne abbiamo però rintracciato la presenza nel limitrofo territorio di Macello, attraverso i “Registri di comunità”: nel 1391 sul territorio vengono censiti 244 bovini, 58 suini, 7 ovini e 5 cavalli; nel 1418, un lieve calo dei bovini (205) risulta compensato da un deciso aumento degli ovini (147); una tendenza che tende a stabilizzarsi anche nella seconda metà del secolo. Nella scelta di incrementare l’allevamento degli ovini aveva sicuramente giocato un ruolo importante la presenza di importanti aree boschive come emerge dalle mappe catastali, e da alcuni toponimi del luogo esistenti tutt'oggi (Regione Boschi). Il bosco, come è noto costituiva un importante sostegno per la fragile economia dell’uomo medievale: oltre al pascolo di ovini e suini, esso era teatro di attività di cacciagione e di raccolta di frutti selvatici, nonché di legname.

            I documenti relativi a Macello ci offrono infine una preziosa indicazione sulla diffusione della canapa in questa zona: totalmente assente nei registri del Trecento essa fa la sua comparsa in quello del 1437 (12 giornate), 1458 (18 giornate), 1533 (23 giornate). Si tratta di una coltura destinata a segnare profondamente il paesaggio agrario di Macello nei secoli. Secondo una testimonianza di Luigi Priotti, nel periodo di massima espansione, essa aveva un’importanza pari a quella del mais oggi. E Casalis (XIX sec.) attesta che la canapa macellese “riesce molto atta alla formazione della tela”. Infine un lavoro di ricerca di Valerio Bertinetto ci ricorda che gli usi della canapa erano molteplici: oltre alla produzione di tessuti, ma soprattutto di robuste funi, da essa veniva estratto l’olio ed, infine, gli stocchi della canapa venivano usati per la lettiera degli animali.

            Il quadro muta decisamente man mano che ci si sposta verso Pinerolo. Nel territorio di Buriasco superiore, nel 1444, l’alteno occupa 170 giornate, il 74% della superficie coltivata. “L’alteno - spiega la Bertero - aveva soppiantato completamente le vigne a palo secco, ancora numerose sulla collina pinerolese. La differenza tecnica di coltura corrispondeva ad un diverso modo di sfruttamento del terreno: le “pecie” (appezzamenti) di alteno erano più estese delle vigne e l’alteno richiedeva meno lavoro del vigneto, poiché il mancato impiego di pali, già di per sé economicamente vantaggioso, consentiva di evitare le operazioni di sostituzione connesse al loro deterioramento e la legatura dei pampini. Gli alberi, che a loro volta producevano frutti, assicuravano oltre al sostegno, anche un certa protezione contro le avversità climatiche come le gelate primaverili e la grandine, grazie alle loro fronde”.

 

Sviluppo e declino del paesaggio: il riso e la guerra

            Non molto diverso doveva apparire il paesaggio collinare di Cumiana e Piossasco alle soglie del '500: un po' ovunque viti, delimitate da muri e siepi vive. Anche qui, ai piedi della collina, secondo un'accurata ricostruzione di Gianfranco Martinatto relativa all'area piossaschese, unitamente ad una forte presenza dell’alteno, la coltivazione di svariati cereali quali frumento, barbariato, segala, meliga, ceci, cicerchie (leguminose), fagioli ed infine, dal XVI secolo, la canapa.

            Anche se breve, degna di essere segnalata è la vicenda della coltivazione del riso, che investe l’area detta della Marsaglia (Cumiana, Piossasco, Volvera, Piscina), perché è indicativa della presenza di un capitalismo agrario nelle nostre campagne che punta su un’agricoltura estensiva, ma che troverà larga resistenza tra le popolazioni locali, soprattutto fra i piccoli proprietari legati a colture cerealicole. “I motivi di tale avversione - spiega Martinatto - sono da ricercarsi nella difficile convivenza delle produzioni tradizionali di questa zona (cereali, vino, frutta e fieno) con quella del riso. Un primo problema è legato al fabbisogno idrico; la nuova coltivazione assorbe tutte le acque del Chisola e di altri torrenti e canali minori togliendo ogni possibilità ad altre colture di usufruire dell’acqua. [...] La stagnazione delle acque là dove viene messo a dimora il riso porta su queste terre, generalmente asciutte, umidità e nebbie persistenti. Oltre a queste alterazioni ambientali la coltivazione del riso procura introiti e vantaggi solo ai feudatari mentre […] i contadini locali […] vengono estromessi dalle attività di raccolta. Per questo lavoro infatti sono ingaggiati degli estranei che spesso e volentieri depredano le vigne.”

            Le rimostranze delle comunità di Cumiana e di Piossasco porteranno pertanto al divieto della coltivazione del riso, che scomparirà con la peste del 1630: questo esperimento fallimentare lascerà però nella regione della Marsaglia e nei territori limitrofi un paesaggio di desolazione di duemila giornate di terreno ridotte a boschi e gerbidi.

            La decadenza del paesaggio agrario di questa e altre zone va però anche collegata alla presenza di eserciti stranieri per tutta l’età moderna: incendi, distruzioni, saccheggi di castelli (Airasca e Cumiana), carestie e pestilenze rendono la situazione di queste terre sempre più precaria, e non lasciano agli abitanti occasioni per tirare il fiato.

Assedio al Castello di Vigone

             Alla fine del XVII secolo poi il territorio pinerolese viene duramente provato dalla campagna militare di Catinat, per il quale la regione non è solo un luogo di transito ma piuttosto di sosta e scontro con gli eserciti di mezza Europa. Sono tristemente famose vicende come quella di Cavour, rasa al suolo dal maresciallo francese nel 1691, ma in questa sede vorremmo segnalare soprattutto l'impatto della campagna militare sul paesaggio agrario. Secondo Martinatto, “Non solo i raccolti furono compromessi ma anche il futuro delle coltivazioni. La viticoltura fu la più danneggiata: viti e bronconi vennero divelti rovinando il lavoro di anni, limitando e compromettendo la produzione delle stagioni successive. In queste distruzioni furono coinvolte sia le vigne e gli alteni di pianura, sia le piccole vigne di collina, poiché rendevano disagevole al Catinat il cammino e la ricerca di una via verso Pinerolo. Alle violazioni delle piccole proprietà domestiche (orti, giardini, vigne) sono da collegare i fatti di sangue tra popolazioni locali e francesi. [...] Le rappresaglie, i furti rendono ancor più desolato lo stato dei luoghi."

 

Patate, gelsi e mais

            Il movimento circolare che abbiamo fin qui seguito ci riporta ora, in una situazione più pacifica, verso la piana in direzione di Cavour e Villafranca alle soglie del XVIII secolo. Qui venivano coltivati cereali di ogni specie - soprattutto grano - anche se la coltivazione più rappresentativa era ancora il prato stabile. Per tutto il secolo rimane significativa la presenza di pascoli e di terreni incolti, ma emerge anche la tendenza ad allargare la superficie coltivabile eliminando i maggesi e allargando i cicli delle rotazioni. Dai Bandi campestri del Comune di Osasco (1740) apprendiamo, ad esempio, che erano già particolarmente diffuse le colture foraggiere (trifoglio, panico), unitamente alle leguminose (ceci, fave, lupini, fagioli).

Complessivamente, dalla metà del secolo, a fronte di alcune costanti, il paesaggio agrario della pianura registra la significativa introduzione di nuove colture quali il mais - che porterà con sé la tragica diffusione della pellagra tra la popolazione più povera -, la patata e i gelsi per l’allevamento del baco da seta. Questi ultimi erano spesso ubicati in gran quantità in mezzo ai campi dei seminativi, e, all’interno dei centri abitati lungo pubbliche vie e cortili. Il Casalis (XIX sec.) ne testimonia una consistente presenza a Buriasco, Macello, Villafranca e Cavour ove si afferma che sono coltivati “con particolare diligenza, e l’annuo prodotto dei bozzoli, che riescono di ottima qualità, eccede i rubbi 6000”. A Vigone esisteva addirittura un mercato che si teneva nei mesi di maggio e di giugno “per la vendita e la compra della foglia dei gelsi, che vi si trasporta non solo da questo territorio, ma eziandio da quelli di Virle, Vinovo, Cercenasco, Piobesi e None”.

            I vitigni mantengono la loro importanza soprattutto nell’area pedemontana: in particolare nella zona di Roletto, Frossasco, Riva, Piscina (“Vi riesce assai buono il vino”), Campiglione e Fenile che alimentano un mercato vinicolo verso Pinerolo e Saluzzo; significative presenze di alteni vengono registrate anche a Cavour e Macello. Presente anche a Vigone per tutto il settecento, la vite scompare progressivamente dal territorio nel secolo successivo “le uve riuscendo perlopiù di infima qualità, e non dando perciò un compenso che pareggiasse le cure e le spese”.

            Abbiamo già parlato dell’espansione della canapa: nel XIX secolo essa rappresenta una presenza significativa, oltre che a Macello, a Cavour e Villafranca e Vigone ove si afferma che “occupa un’ottava parte dei medesimi campi, e si aumenterà vieppiù questo ramo di coltura avuto riguardo al prezzo della canapa stessa”.

            Pur con la cautela che le generalizzazioni del caso impongono possiamo ritenere attendibile la suddivisione colturale proposta da Luigi Priotti: "una parte a prato stabile, laddove era possibile l’irrigazione; ben il 50% riservato ai cereali maggiori: grano e segale, seguiti in ordine decrescente da mais, avena, patate; ancora prati in rotazione triennale di leguminose”.

            Ovunque alberi da frutta: meli, peri, sui bordi dei canali e in mezzo ai prati; peschi nelle vigne, ciliegi e susine attorno alle case; noci in ordine sparso. Infine querce, olmi, frassini, acacie, pioppi lungo i bordi dei canali o delle strade. Quanto al bosco, in pianura, esso si avviava lentamente a scomparire, tranne che nelle vicinanze dei torrenti, come attesta questa testimonianza del Casalis relativa a Vigone: “I boschi, che prima dell’epoca del governo francese occupavano una considerevole parte di questo territorio, specialmente quella che in sulla manca sponda del Chisone e del Pellice, furono in quell’epoca in parte dissodati e ridotti a campi, ed il prodotto di quelli che ne rimangono ancora, essendo devastato dal dente del bestiame e dalla avidità delle famiglie indigenti, che ne fanno un gran guasto, non si può calcolare che alla metà di quello che se ne dovrebbe attendere”.

 

Per approfondire